IV.

La prosa del Duecento

1. Cronache e libri di viaggi

Anche nella prosa l’uso artistico del volgare è particolarmente tardo ed inizialmente la lingua dell’arte, della filosofia, della storia sono il latino o in certi casi il francese. Anzi l’uso del latino continuerà prevalentemente nei trattati filosofici e scientifici a causa della sua diffusione in tutta Europa, anche dopo l’affermazione della prosa volgare; per venir poi rilanciato con maggiori esigenze artistiche nell’epoca preumanistica trecentesca.

Quanto al francese, esso, che nel Medioevo aveva notevole diffusione grazie alla potenza del regno di Francia e alla cultura piú alta che lí si formò e di lí s’irradiò, venne adottato soprattutto nel campo della narrazione fra cronaca privata e cittadina e in quella singolare zona di plurilinguismo che era, ancora nel Duecento, Venezia. Qui, nel fervore di un’intensa vita cittadina politica e commerciale, ricca di rapporti con il vasto mondo europeo, si incontravano varie esperienze letterarie: l’eredità trobadorica provenzale con il trovatore veneziano Bartolomeo Zorzi, i riflessi della letteratura religiosa e morale lombarda e veronese (la Leggenda di San Stady del Grioni), l’uso del latino in trattati politici e in cronache cittadine, il tentativo di dar vita al dialetto persino in traduzioni da testi latini e infine, appunto, l’uso del francese in cui la civiltà veneziana del Duecento realizza le sue espressioni piú autentiche e interessanti.

Ciò avviene nella Chronique des veniciens di Martino da Canale, che inaugura una lunga tradizione storiografica veneziana e si accende di una notevole vivacità nella narrazione dei fatti contemporanei. Ma, in maniera tanto piú interessante e significativa per il gusto di avventura e di esperienza dei mercanti veneziani del tempo, ciò avviene soprattutto in quell’alto documento storico e letterario che è il Milione di Marco Polo.

Il Milione (cosí intitolato dal soprannome del Polo e da questo dettato in francese, quando era prigioniero a Genova, al suo compagno di prigionia, il letterato pisano Rustichello) narra il viaggio intrapreso a scopi commerciali dal Polo e da alcuni suoi parenti nell’attuale Cina, il regno enorme e fin allora sconosciuto dell’imperatore Kublai Khan. I mercanti veneziani furono adoperati in missioni diplomatiche dal potente sovrano, che permise loro cosí di conoscere piú minutamente gli usi e l’ordinamento civile del suo regno. La relazione di Marco Polo è mossa anzitutto da interessi concreti, mercantili e scientifici per i fatti economici, geografici, politici e amministrativi di quel paese fino allora sconosciuto. E perciò va considerata come avvio della letteratura scientifica moderna e come forte indice di crescenti interessi mondani, terreni, entro la cornice di una religiosità tutt’altro che assente. Ma, nello stesso tempo, da quella narrazione di viaggi lunghissimi in terre sterminate e sconosciute, fra uomini ed usi diversissimi da quelli europei, e pure umani e non privi di una loro coerenza e saggezza, emana anche un forte fascino fantastico, che in parte noi moderni siamo portati ad esagerare di fronte all’atteggiamento autentico dell’autore, certo meno commosso, piú lucido, attento, saggio e bonariamente ironico, di quanto a volte possa apparirci dalla suggestione materiale della grandiosità quasi favolosa dei fatti narrati. Eppure, anche a riportare le cose alla loro giusta prospettiva, certe narrazioni (che il giovane troverà riportate nell’antologia, nella versione italiana trecentesca) non mancano di una efficacia artistica e fantastica e dovettero insieme contribuire ad alimentare nei moltissimi lettori europei del Milione un piú forte desiderio di conoscenza, ma anche una piú forte alacrità immaginativa.

Né, del resto, realtà e fantasia, volontà di conoscenza concreta e suggestione di sogni poetici sono cosí opposti, come a volte un malinteso spirito della «purezza» poetica vorrebbe far credere.

2. La retorica e la novellistica

L’uso del volgare nella prosa comincia, abbiamo detto, piú tardi che nella poesia, e coincide con una fase assai avanzata dello sviluppo culturale della civiltà comunale: la Sicilia imperiale, la Magna Curia non hanno prosa volgare, mentre l’hanno, dopo la metà del secolo, i centri cittadini della Toscana comunale e Bologna con il suo centro universitario giuridico. Ciò corrisponde ad un ampliamento della diffusione culturale che cerca un pubblico piú vasto e non capace di una corrente lettura in latino: ampliamento a sua volta collegato alla spinta di divulgazione, propria dello spirito comunale e alle necessità politiche e civili che comportano un’educazione di strati piú vasti della popolazione alla cultura anzitutto di tipo giuridico e all’arte retorica sentita come necessaria alla politica e all’amministrazione della città.

Ecco cosí che la prima rottura dell’esclusivo dominio del latino nella prosa viene operata nel campo delle materie giuridiche. Anzitutto nel grande centro giuridico di Bologna: dove nel 1246 si richiese, negli esami per i notai, che i candidati sapessero dimostrare di ben possedere l’uso della prosa volgare, mentre un maestro universitario, Guido Faba, dava esempi di esemplari composizioni in prosa volgare che adattavano alla nuova lingua gli artifici e le regole formali del latino medievale.

E Brunetto Latini, già ricordato nella storia della poesia e della letteratura fiorentina, traduceva in italiano orazioni ciceroniane e i primi 27 capitoli del trattato De inventione con lo scopo precipuo di munire i cittadini fiorentini dell’abilità del dire e dello scrivere, cosí necessaria ai rapporti politici interni e alle ambascerie, ed anche al comportamento socievole e, piú generalmente, alla comprensione, al possesso logico della realtà. Non che anche la poesia non sia un mezzo di cultura, di conoscenza in forma piú fantastica, ma certo con la prosa piú chiaramente si impongono la maturità di una cultura, la sua estensione e forza di diffusione, la sua capacità di investire argomenti che la poesia medievale affrontò, ma certo con maggiore difficoltà e minore sicurezza di volgarizzazione.

Cosí la nuova prosa si applica alla descrizione geografica, come avviene nel trattato Della composizione del mondo di fra’ Ristoro d’Arezzo, e ancor piú alla narrazione del passato piú o meno recente, come avviene nelle cronache numerose delle città toscane, in cui la nuova prosa si forma in piú facile contatto con un andamento narrativo piú elementare e «cronistico»: cioè riproduttivo di fatti, piú che esplicativo di cause e di connessione fra i fatti. E si ricordino l’anonima Cronica fiorentina, la Cronichetta lucchese, e la piú individuata e interessante Istoria fiorentina di Ricordano Malispini.

Mentre l’apprendimento e il possesso dell’arte del dire e dello scrivere si appoggiano ai numerosi trattati del «dittare», agli esempi appositi di epistole e orazioni (oltre all’opera del Faba si ricorderanno, nell’ambiente bolognese e toscano, l’anonimo Flore de parlare, il Fiore di rettorica di fra Guidotto da Bologna, la Rettorica di Brunetto Latini e le lettere, ornatissime e di intonazione alta e poetica, di Guittone d’Arezzo), la nuova arte della prosa si avvale anche dell’importante esercizio delle traduzioni dal latino e dal francese: esercizio che permette un piú concreto trasferimento, adattamento e rinnovamento originale nella nuova lingua di procedimenti artistici naturali in lingue di antica e comunque consolidata capacità espressiva. Si pensi almeno, per le traduzioni dal francese, a quei «romanzi» cavallereschi come il Tristano Riccardiano (cosí detto perché il suo codice è posseduto dalla Biblioteca Riccardiana di Firenze) e come la Tavola ritonda, che narrano le leggende del ciclo bretone di re Artú e la storia poetica di Tristano ed Isotta e che tanto contribuirono all’educazione sentimentale e fantastica del pubblico duecentesco italiano. Si noti poi che nella narrativa piú arduo inizialmente era il compito di uno scrittore italiano senza tradizione ed esempi nazionali in proposito.

Ma, anche nel settore di una narrativa piú fantastica e priva di piú immediati addentellati e ragioni pratiche e morali, non mancarono opere originali, come il delizioso e freschissimo Novellino, anonimo frutto di uno scrittore fiorentino dell’ultimo ventennio del Duecento, il quale raccolse un centinaio di novelle (originariamente forse centoventitré, poi ridotte a cento) tratte in parte da altri testi volgari allora correnti e poi perduti, da versioni dal francese, dal provenzale, dal latino, ma certo rimaneggiate e arricchite con un gusto assai organico dal raccoglitore, che volle con esse offrire novelle dilettevoli e insieme capaci di esemplarità per una vita socievole e di cortesia e di bel parlare (anzi il titolo della raccolta in un manoscritto antico era: Libro di novelle e di bel parlar gentile).

Da questo succedersi di novelle, che esaltano esempi di cortesia, di generosità, di giustizia, di virtú civile, di bei motti e spiritose risposte atte a risolvere difficili situazioni e casi di coscienza, risulta un mondo colorito e lievemente fiabesco, ma, nel suo fondo, consistente e reale, storico, che par preludere da lontano a certo clima cortese e saggio del Decameron. Naturalmente tutto è come piú acerbo e il taglio, la misura del racconto sono brevi ed angusti, come il procedimento sintattico è schematico e privo di complessità.

Ma in questi limiti storici e personali, corrispondenti ad una mentalità e ad una società meno articolate e complesse di quelle trecentesche, il Novellino è certo un libro ricco di arte, di poesia e di rappresentatività storica e costituisce il migliore esempio di prosa artistica del Duecento. Dico prosa artistica perché essa ha una sua tecnica di costruzione e una consapevolezza che non distrugge la sua freschezza e vivacità di impressioni e reazioni, ma anzi la rafforza e la precisa. Sicché la stessa brevità delle novelle è insieme rivelatrice di un respiro meno ampio e meno complesso, ma anche di una consapevolezza artistica che sa ricavare dalla brevità effetti di singolare efficacia esemplare, di rapidità, di succosa concisione.

E se a volte la novelletta vale quasi come esempio di moralità, di bel comportamento esemplare (e tale è il fine pratico e civile che l’autore certo persegue) in forme piú secche e poco fantastiche, non mancano novelle in cui il gusto del sottile e arguto parlare, del bel comportamento, dell’esempio di saggezza e virtú sale fino a piú aperti movimenti poetici e narrativi, sostiene coerentemente piú armoniose e sognanti aperture fantastiche, cui contribuisce lo stile nitido e aristocratico-popolaresco e la stessa mancanza di un periodare piú complesso e monumentale.

Si pensi alla incantevole novelletta di Narciso, in cui la concisione ed elementarità dei brevi periodi asseconda la calma e trasognata vicenda senza dolore, senza tragedia, senza contrasto.

O si pensi alla novella d’amore, posta alla fine del libro, ricca di toni patetici, favolosi, magici, o alla storia elegiaca della damigella di Scalot, o a quella dei tre negromanti o a quella del favolatore di Ezzelino, nella quale l’arguzia e l’intelligenza con cui il favolatore salva la sua voglia di dormire sono certo la punta ricercata dallo scrittore e il silenzio notturno invernale, in cui il breve racconto è introdotto, funziona come elemento reale-fantastico che dà allo stesso bel motto e al suo dispiegarsi fiabesco un tono poetico assai superiore alle apparenti possibilità del nudo argomento.

Certo, quando si pensa al Boccaccio (come facevamo prima) sulla linea della narrativa, o al Dante del Convivio sulla linea della prosa, si capisce quale decisivo intervento sia stato quello di queste grandi personalità nella storia della nostra prosa artistica.

E proprio Dante, il grande poeta che supera ogni esperienza lirica duecentesca, è anche il grande prosatore che, nel passaggio fra la superiore raffinatezza della prosa della Vita Nova e la complessità robusta di quella del Convivio, opera la creazione di una prosa poetica prima e di una prosa intellettuale poi, superando tutti i tentativi precedenti di cui insieme egli ha saputo potentemente riprodurre nella sua formazione i suggerimenti e le esperienze, attingendo piú direttamente alla lezione dei classici e del latino della filosofia scolastica: mentre poi la stessa robusta complessità attinta nella prosa del Convivio servirà a dare una maggiore forza di costruzione e una piú pronta capacità di fusione di pensiero e poesia nella suprema sintesi espressiva della Commedia.